Sono strade di terra e pietre le strade quelle che da Port-au-Prince portano a Titanyen. Per gli Haitiani Titanyen significa migliaia di corpi trasportati dai camion tra la polvere dopo il terremoto di gennaio, e gettati in fretta nelle fosse comuni, senza un nome, senza un funerale, senza dignità. Qualche resto affiora tra immondizia e brandelli di vestiti e scarpe.
Oggi Titanyen è anche il posto delle tombe del colera: altri camion, altra polvere, portano corpi sigillati in sacchi di plastica, secondo il protocollo del Ministero della Salute. Corpi anonimi che diarrea e vomito hanno svuotato della vita. Ogni giorno ne arrivano sempre di più.
L'epidemia si muove veloce. I bollettini ufficiali sono implacabili: 1415 i morti e 25.248 i casi certificati. Ma i numeri reali potrebbe essere molto più elevati: ci sono intere zone dell'isola caraibica di cui non si sa nulla, i 2/3 del territorio di Haiti è raggiungibile solo a piedi. Secondo alcune stime i casi di colera potrebbero essere 95.000.
E diventa anche un caso politico. Mentre da una parte si accusa l'ONU di esserne il responsabile, dall'altra scende in campo Lancet a dire che in questo momento non è utile a nessuno la caccia al colpevole. Accusare l'ONU, i soldati nepalesi, o gli operatori sanitari è infatti un modo per evitare di affrontare il problema fondamentale: la mancanza di volontà politica di creare infrastrutture funzionanti nei paesi del Terzo Mondo. Haiti è l'esempio principale, l'epidemia di colera è il caso di studio.
Le violenze contro l'ONU riportano al Medioevo, quando ad essere incolpati della diffusione della peste erano gli ebrei. Si cerca un capro espiatorio, una risposta politica, di fronte a una crisi sociale e alla mancanza di interventi concreti di sanità pubblica.
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